IL MIO VIAGGIO IN ISLANDA - ep.8

Destinati a perdersi

di Salvatore Marra

10 Agosto 2019.

Ci svegliammo presto anche quel giorno, intorno alle 8, dopo aver pernottato nell’ottimo campeggio Svinafell (A) (leggi episodio precedente qui).

Il programma di quella nuova entusiasmante giornata prevedeva subito una escursione nel vicino Parco di Skaftafell (B), comprendente la famosa cascata nera di Svartifoss e l’immenso ghiacciaio Skaftafellsjökull, prolungamento del gigantesco ghiacciaio Vatnaökull, il più grande d’Europa. Due “pezzi da novanta” freschi freschi già subito in mattinata.

Dopo pranzo saremmo ridiscesi sulla costa, diretti verso la magica laguna dei ghiacci Jökulsárlón (C), anch’essa ormai diventata una meta imperdibile per chi si reca in Islanda, e successivamente avremmo fatto una sosta presso la spiaggia nera di Stokksnes (D) ai piedi del massiccio Vestrahorn. Anche questi due luoghi estremamente suggestivi e dalla visuale mozzafiato.

In seguito avremmo continuato a percorrere la ring road fino alla città di Egilsstaðir (il centro più grande dell’Islanda orientale), lungo quella che viene chiamata la “strada dei fiordi dell’Est”, fino a raggiungere la Litlabjarg Guesthouse (F), la fattoria dove avremmo pernottato quella notte.

il percorso di giornata

Tanti chilometri, circa quattrocento in questa tappa, la più lunga di tutto il viaggio. Tanto lunga e impegnativa quanto intensa ed emozionante. Il ghiacciaio, così come la laguna e il sorprendente Vestrahorn sono ancora ben impressi nella mia mente, simboli indiscussi di una natura grandiosa e straordinaria.

E anche quel giorno non mancarono colpi di scena e imprevisti.

Detto questo bando alle ciance : pronti? Via!

Il campeggio di Svinafell si trova proprio alle porte del Parco Nazionale di Skaftafell, e difatti in pochi minuti raggiungemmo il parcheggio, da dove partono una serie di percorsi molto fighi che permettono di esplorare in lungo e in largo questo parco. Anche in questo caso, come quando nella regione di Landmannalaugar (ve la ricordate? Se vi siete persi l’episodio cliccate qui), le possibilità di trekking sono innumerevoli, di varia lunghezza e complessità.

la mappa dei vari trekking nel parco nazionale di Skaftafell

Scegliemmo il sentiero classico, ovvero quello che conduce alla cascata di Svartifoss, per poi continuare fino ad un punto panoramico, da dove è possibile ammirare il ghiacciaio dall’alto. 

Il tutto in un paio di ore di camminata piacevole e non impegnativa, o una intera mattinata se ci si sofferma maggiormente. Come facemmo noi, entusiasti in maniera imbarazzante di fronte a tutto quello spettacolo.

Esiste poi un altro percorso molto gettonato, e meno faticoso perché in pianura, che ti permette di arrivare proprio a due passi dal ghiacciaio, ma noi preferivamo vederlo dall’alto e ammirare tutta la sua grandezza, oltre che raggiungere la cascata, e quindi lo scartammo.

Nei pressi del parcheggio principale vi è un punto informazioni con diverse guide turistiche che organizzano tour diretti al ghiacciaio (ovviamente a pagamento, e che prezzi!), specialmente in inverno. E poi un campeggio, un punto ristoro e così via.

Non è però l’unico accesso al parco; esistono anche altri parcheggi più in avanti lungo la strada, piccoli e meno affollati, da dove partono altri sentieri minori che si ricongiungono con quello principale, diretto alla cascata. Noi decidemmo di sostare in uno di questi parcheggi secondari, praticamente deserto o quasi.

Zaini in spalla e ci mettemmo subito in marcia.

Altra giornata davvero bella. Non era così soleggiata come la precedente, c’erano un po’ di nuvole e il Sole andava e veniva, ma il vento era totalmente assente ed eravamo immersi nella vegetazione. 

L’escursione fu quindi estremamente piacevole, il sentiero è ben segnato e facilmente individuabile, e nel giro di un’oretta di camminata lenta arrivammo alla cascata nera di Svartifoss.

Svartifoss

E’ definita nera perchè le fanno da contorno diverse colonne basaltiche scure, simili a quelle che avevamo visto lungo la spiaggia di Reynisfjara (trovi l’articolo qui).

E’ possibile spingersi fino ai piedi della cascata per poterla ammirare dal basso e da molto vicino, prestando le dovute cautele ovviamente. 

Non come me che, intento a trovare l’inquadratura perfetta e il giusto equilibrio sopra a dei sassi in mezzo al torrente, vidi scivolare improvvisamente il coperchio dell’obiettivo della mia reflex in acqua. Perso per sempre.

“Per fortuna era il coperchio e non il cellulare! Poi si che mi veniva di ridere!” disse Manu ironicamente, e aveva ragione. 

Due giorni prima avevamo perso il suo di cellulare, e di conseguenza il mio era diventato ormai di estrema importanza. E da due giorni lei stava vivendo questa esperienza in assenza di internet, macchina fotografica, messaggi, chiamate, storie, post, tutte ste robe qui insomma.

“Fuori dal mondo”, ma in realtà dentro il mondo. Molto più di me.

Per questo motivo la perdita del coperchio non mi pesò più di tanto; è facilmente acquistabile uno nuovo ovunque, trattandosi di un obiettivo di una nota marca, e in ogni caso avevo la custodia di protezione. Tutto ok insomma.

Continuai pertanto a scattare foto su foto e girare video su video, mentre nel frattempo il Sole era uscito prepotentemente allo scoperto, illuminando splendidamente l’intera cascata.

Un piccolo snack e una piccola sosta, seduti lungo la riva del fiumiciattolo, a contemplare l’ennesima meraviglia, e ci rimettemmo quindi in cammino. 

Tornammo indietro di qualche centinaio di metri, per poi deviare su un altro sentiero, più defilato.

La vegetazione, rigogliosa vicino alla cascata, si fece sempre più bassa e rada man mano che ci allontanavamo, con solo qualche cespuglio sparso qua e là, in un paesaggio prevalentemente roccioso. Incontrammo due ragazzi americani in direzione opposta alla nostra e ci dissero che il punto panoramico sul ghiacciaio era poco più avanti. E di prepararci perché era “unbelievable”.

Ed è davvero incredibile. Da lasciarti senza parole.

Il ghiacciaio è lì, di fronte a te, enorme, come una gigantesca frana scesa dalla montagna, silente e immobile, mostrando tutta la sua potenza e immensità.

Per tutta la durata di questa avventura, alla fine di ogni tappa, pensavo di aver raggiunto il massimo, di aver visto un qualcosa di fantastico che più fantastico non si può. E invece mi ricredevo sempre, puntualmente ogni giorno a seguire, e poi nuovamente quello dopo ancora, e così via.

Questo grande gigante bianco mi spiazzò così tanto che non mi interessò più controllare l’ora, capire quanto tempo potevo ancora rimanere lì senza attardarmi rispetto al resto del programma previsto quel giorno. Non me ne fregò più niente del programma.

Non te ne può e non te ne deve fregare più niente quando vivi e ti emozioni così.

Devi lasciarti trasportare e viverti tutto.

Non a caso feci pochissime foto, paragonate a quante invece ne scattai in altri luoghi, soltanto quelle che vedete qui e giusto un altro paio, tra l’altro con lo smartphone.

Ero in balìa di me stesso e delle mie sensazioni, e capii che quel momento dovevo vivermelo, respirarlo a pieni polmoni, nella maniera più totalizzante in assoluto.

Non ho neanche ricordi di aneddoti precisi, né tantomeno memoria di quello che ci dicemmo io e Manu lì.

Non ho memoria se non del paesaggio e delle emozioni.

Ed è giustissimo così.

Il ritorno al parcheggio fu silenzioso, ma rapido e sereno.

Avevamo lasciato il pranzo e le varie provviste in macchina, compreso il nostro mitico limoncello (leggi come abbiamo fatto a procurarcela qui), convinti che quella escursione sarebbe durata poco. Invece ci pentimmo amaramente di non aver portato con noi la bottiglia. Sicuramente di fronte al ghiacciaio sarebbe stato il momento perfetto.

Pranzammo con calma, sulla riva del torrente che lambisce il piccolo parcheggio secondario dove avevamo posteggiato la macchina. Intorno alle due, ci rimettemmo in cammino, diretti verso la famosissima e tanto attesa laguna dei ghiacci di Jökulsárlón.

Si trova a circa un’oretta di auto dal parco, ed è proprio a ridosso della ring road.

E’ piena di tantissimi blocchi di ghiaccio galleggianti di varie dimensioni, provenienti dal ghiacciaio Vatnajökull, il più grande d’Europa, che si staccano da esso e derivano lentamente verso il mare, riempiendo la laguna.

la Laguna dei ghiacci di Jökulsárlón

Non a caso la laguna raggiunge la sua massima portata proprio in estate, quando lo scioglimento è ancora più accentuato a cause delle temperature più alte.

Rappresenta quindi in qualche modo un simbolo naturale dei cambiamenti climatici che sta subendo il nostro pianeta Terra negli ultimi decenni. E la sola idea che tra poche decine di anni tutto questo potrebbe non esistere più è logorante. Un pensiero che mi accompagnò per buona parte della passeggiata che io e Manu facemmo lungo le rive del lago.

Questi piccoli icebergs galleggianti brillavano di un bianco lucido tendente al azzurrino, sotto un Sole alto e luminoso, e con il ghiacciaio sullo sfondo; ogni tanto vi era qualche foca che sbucava tra un blocco e un altro, e dei gabbiani svolazzare.

Vi è anche la possibilità di effettuare delle gite in barca di un’ora o due nella laguna, o con gommoni da pochi posti, che ti permettono di ammirare gli iceberg da molto vicino. I costi di queste escursioni sono piuttosto altini (a partire da 75 euro a persona per un giro in barca di un’ora, trovate informazioni nel sito icelagoon.com), per cui decidemmo di “accontentarci” e di ammirare la laguna dalla riva.

Se si ha fortuna di trovare tempo bello, lo spettacolo è davvero assicurato. Meglio ancora, a mio avviso, se si decide di pernottare li nei paraggi, in maniera tale da poter visitare la laguna anche al tramonto o all’alba. 

Dev’essere ancora più suggestiva.

Ho provato ad immaginare tante volte come possa essere questo luogo in inverno, di notte, sotto un cielo stellato o una sfavillante aurora boreale. E’ Sicuramente un’altra esperienza grandiosa, quella di visitare questi luoghi in inverno, che spero di realizzare presto.

Sostammo lì un paio di ore, prima di rimetterci in cammino, diretti verso il massiccio montuoso di Vestrahorn.

Si trova poco più a Est di Jökulsárlón e anche per raggiungere questa location è necessario deviare dalla ring road su una stradina secondaria, che comunque risultò asfaltata e ben pulita quando andammo noi.

Si tratta di una tappa che avevamo inserito quasi all’ultimo, perchè avevo visto delle foto qualche giorno prima della partenza e mi avevano davvero impressionato.

E non rimanemmo affatto delusi.

Il Vestrahorn dal vivo è ancora più imponente e fascinoso di quanto possa esserlo in foto, e si eleva sulla spiaggia nera di Stokksnes che li fa da tappeto, con il mare di fianco.

Più che una spiaggia è una vera e propria laguna nera, in cui la sabbia scura si mescola con l’acqua del mare, creando delle sfumature scure molto particolari.

I riflessi della montagna che si creano sulla laguna sono davvero belli, e fanno del massiccio uno dei soggetti più fotogenici a mio avviso di tutta l’Islanda.

Tuttavia, e di questo faccio mea culpa, non riuscimmo a raggiungere il punto più estremo della laguna da dove poter fotografare l’intera montagna per bene e in tutto il suo splendore.

Non ci sono grosse indicazioni lungo la strada e, dopo diversi tentennamenti, decidemmo di farci guidare dall’intuito e dallo spirito di avventura, che per fortuna non manca mai nè a me nè e Manu.

Arrivammo su di un sentiero da percorrere a piedi, che conduce proprio ai piedi al massiccio. Dopo pochi passi però, presi dalla voglia di esplorare e di immergerci in quella natura incredibile e incontaminata, ci catapultammo proprio sulla laguna.

Avevamo il massiccio sulla sinistra e il mare sulla destra, e intorno a noi il silenzio. Con il cielo azzurro, che si contrapponeva fortemente con il nero corvino della spiaggia.

Giungemmo in un punto da cui fu possibile ammirare il Vestrahorn più da lontano, e scattai diverse foto, cercando cogliere anche il riflesso di quest’ultimo sull’acqua. 

Fu davvero davvero bello.

Lungo la strada dei fiordi dell’Est (così è chiamato il pezzo di ring road che percorre tutta la regione sud orientale dell’isola, piena appunto di fiordi e insenature), incontrammo tantissimi animali stupendi : cavalli, pecore , maiali, cervi in libertà. Perfino cigni, tantissimi cigni in riva al mare, complice sicuramente il clima particolarmente sereno. Sempre più animali e sempre meno persone e centri abitati. Il che non fu un problema, anzi tutt’altro, era fantastico.

Si tratta di una zona, quella orientale, estremamente desolata, forse la regione costiera dell’isola più desolata, alla pari di quella dei fiordi nord occidentali.

Non incrociammo più alcun ciclista, nessun viaggiatore autostoppista, a differenza di quanti ne avevamo visti a sud ovest nei giorni precedenti, e sempre meno automobili. Le poche fattorie che incontrammo lungo il cammino si contavano sulle dita di una mano, e nessun vero centro abitato che poteva essere definito tale.

Ma non fu affatto un problema. O per lo meno fino a quando, presi da una chiacchiera irrefrenabile riguardante nostri progetti futuri, imboccammo per errore una strada sbagliata.

Come vi dicevo, in questa regione la ring road è molto stretta e sinuosa intorno ai fiordi, a negli incroci non è sempre facile distinguere la strada principale da quelle secondarie. E bisogna stare molto attenti alle indicazioni, proprio perchè non si hanno tanti punti di riferimento, essendo immersi nel nulla.

Nei pressi del fiordo Berufjörður lo scenario cambiò improvvisamente. Da una curva ad un’altra passammo nel giro di pochissimi minuti dal cielo sereno a una coltre di nubi e nebbia che ci avvolse completamente. E la temperatura crollò di una decina di gradi.
In quel momento ero io alla guida e, un po’ distratto come dicevo dalla chiacchierata e dalla nebbia, e complice probabilmente anche un po’ di stanchezza, imboccai per errore la strada n.939.

Inizialmente tranquilla, si fece sempre più impervia e in salita.

“Che tempaccio, non vedo quasi più niente, che cosa assurda! Due minuti fa era completamente sereno!” feci io a Manu, mentre lei continuava a raccontarmi la sua interessante idea di comprare un piccolo furgoncino di seconda mano in comproprietà con i suoi coinquilini per viaggiare in giro per l’Europa.

La nebbia era sempre più fitta, ma eravamo ancora convinti di percorrere la n.1, quindi proseguii con la guida.

Dopo un po’ però, continuai : “Scusami Manu se ti interrompo, ma siamo sicuri di essere sulla ring road? Insomma, da quello che ricordo, la n.1 percorre tutta la costa fino ad arrivare a Egilsstaðir, qui invece mi sembra di essere in montagna”.

“Effettivamente…ma la mappa offline che dice? Non stai seguendo quella scusa?” fece Manu con la sua solita calma.

Il problema è che in quella zona non c’era campo, quindi non potevo utilizzare google maps, e la mappa off line che avevo scaricato prima di partire non era molto chiara e funzionava a tratti.

“No Manu non ci capisco niente con quella mappa del cavolo, con tutte quelle scritte in islandese, ora comunque provo a metterla, google maps qui non funziona…in ogni caso che diamine, la strada è una, possiamo solo che andare dritti. Magari chiacchierando non ci siamo accorti di aver superato tutti i fiordi e siamo quasi già arrivati a Egilsstaðir”.

Ci credevo poco, Egilsstaðir dista da Vestrahorn circa duecento chilometri, ed eravamo in macchina da al massimo tre quarti d’ora.

Mentre Manu cercava di studiare la mappa offline per capire dove ci trovassimo, la strada fino ad allora asfaltata, divenne di terra e piena di buche. Continuando a salire la nebbia si diradò un po’ e apparve di fronte a noi una scenario indescrivibile.

Ormai era ovvio che non stavamo più percorrendo la ring road, ed eravamo completamente soli nel nulla. Non sapevamo il nome della strada, ne dove questa ci avrebbe condotto. Senza dimenticare che la auto nostra era una semplice Panda non 4×4, e su quella strada potevamo andare al massimo a 30 km orari, onde evitare spiacevoli imprevisti e danneggiamenti.

Ufficiale : ci eravamo persi!

Dopo venti minuti abbondanti con andamento a passo d’uomo, la mappa offline finalmente si decise a funzionare e capimmo che eravamo nel mezzo della n. 939, esattamente a metà strada tra il bivio con la ring road in cui avevamo sbagliato direzione, e la cittadina di Egilsstaðir, distante da noi circa 40 km. Da percorrere a 30 all’ora e in quelle condizioni.

“Che facciamo Manu, torniamo indietro?” Feci io a Manu con voce stanca e un po’ preoccupata.

“Ma no, ormai siamo a metà percorso, non ha senso, solo le nove e mezza di sera ma c’è ancora luce, in una oretta dovremmo arrivare in città, conviene continuare ad andare avanti” rispose Manu, e mi trovò d’accordo.

Neanche il tempo di rincuorarmi che, all’improvviso, vidi una piccola lucetta arancione accendersi sul display della nostra pandarella…eravamo in riserva di carburante!!!

Lì, proprio lì, completamente isolati, alle nove e mezza di sera, senza campo per chiamare con il cellulare, con il carburante quasi terminato e a 40 km da Egilsstaðir. E quindi a non meno di 40 km dalla prima possibilità di rifornimento. Ammesso che lo avessimo trovato una pompa di benzina nella cittadina.

Panico.

Panico puro per me. Non mi ero mai trovato in una situazione simile ed iniziai ad agitarmi. Quaranta chilometri da percorrere in riserva non sono pochi anzi, sono tantissimi, soprattutto considerate le condizioni della strada.

“Dai stai tranquillo, basta che vai piano, e non fare frenate brusche. La strada a quanto pare sembra essersi spianata e non stiamo più salendo. Vai piano, non abbiamo fretta, ce la faremo”.

La parole di Manu non furono rassicuranti, di più. In queste situazioni riesce a mantenere una calma e una tranquillità che penso le invidierò sempre. In quel momento era necessario che almeno uno dei due fosse lucido. Io lo ero nella pratica alla guida, lei lo era mentalmente al mio fianco. Anche in questa strana e difficile occasione ci compensammo alla grande, e furono attimi che credo non dimenticherò mai.

Continuai ad avanzare lentamente, sempre a non più di 30 chilometri all’ora, ed effettivamente dopo qualche chilometro la strada iniziò a scendere verso valle, mentre in compenso ricomparve la nebbia.

Il Sole era tramontato, e iniziavo ad essere parecchio stanco. Ma dovevamo trovare un distributore di benzina presto, a tutti i costi, era l’unica cosa che mi importava in quel momento.

La tacca della benzina era sempre più prossima allo zero, ma non potevamo fare altro che continuare ad andare avanti, sperando di arrivare presto. Quei 30 chilometri che ci separavano da Egilsstaðir furono lunghissimi, sembrarono infiniti. 

Ci impiegammo quasi un’ora a percorrerli, e quando arrivammo ci trovammo di fronte un piccoloissimo agglomerato di case, una chiesa, un campo di calcio, e un minuscolo aeroporto. Nient’altro. Di benzinai nemmeno l’ombra. E la nebbia era sempre più fitta e impenetrabile.

All’improvviso vidi un parcheggio e una insegna strana. Era verde e gialla, e assomigliava a quelle delle stazioni di servizio. Mi avvicinai nella nebbia, senza capire dove stessi andando in realtà. 

E poi apparve lei, una pompa di carburante buttata li, in mezzo al parcheggio, quasi invisibile. La stazione di benzina più striminzita e inutile ma allo stesso tempo più bella che io abbia mai visto!

Neanche ve lo sto a dire, ovviamente facemmo il pieno. Ne avrei fatti anche due se avessi potuto.

Dovetti fermarmi dieci minuti per riprendermi e calmarmi, prima di riprendere il cammino.

Ora sorrido mentre ripenso a quei momenti, perchè anche questi imprevisti rappresentano il viaggio, quello vero e puro, fatto di bellezze e di gioie, ma allo stesso di difficoltà e di esperienze che ti insegnano, e che alla lunga ti rimangono per sempre.

E non era ancora finita. 

Riforniti fino all’ultimo millilitro possibile di benzina, dovevamo ancora trovare la fattoria nella quale avremmo pernottato quella notte. 

La scegliemmo mesi e mesi prima, spulciando tra le poche proposte che il sito booking.com proponeva in quella zona. 

La Litlabjarg Guesthouse si trova a circa 30 km più a nord di Egilsstaðir. 

In una zona non desolata, di più. Non voglio esagerare ma lungo in percorso tra la cittadina e la fattoria incontrammo quattro case al massimo.

Ormai era quasi notte e la nebbia era fittissima. Ero stanchissimo ma fortunatamente il navigatore aveva ripreso a funzionare bene, e avevo precedentemente memorizzato la posizione del casolare. O almeno cosi credevo.

Ad un certo punto il navigatore pronuncio freddamente la tipica frase : “sei giunto a destinazione!”.

Ma noi eravamo in strada nel nulla più assoluto avvolti nella nebbia, ed erano le undici di sera!

La fattoria era in cima ad una collina proprio al nostro fianco, e ce ne accorgemmo dopo poco, quando si accese una flebile luce proprio al suo interno.

“Eccola!” esclamai io, e fu una liberazione. 

Imboccammo una via strettissima di terra piena di erbacce altissime. Superammo così un’altra casa, buia ed abbandonata, e solo dopo capimmo che si trattava della vecchia casa del fattore che ci ospitava. Di fianco a questa vi era la loro casa nuova e, poco più avanti, il cimitero di famiglia. Uno scenario davvero da film horror, con la nebbia sempre fittissima e un silenzio assordante.

Arrivammo finalmente in cima alla collina. La guesthouse era molto carina, con una bellissima veranda coperta all’ingresso. 

la veranda della nostra guesthouse

Al suo interno, un piccolo salottino e una cucina molto fornita, e poi cinque camere doppie e due bagni. Con noi ospiti quella notte vi era una signora francese, una coppia di fidanzatini norvegesi e padre e figlio inglesi. Di fianco alla casa una piccola stalla e una sgabuzzino adibito a lavanderia, che utilizzammo subito per fare una rapida lavatrice.

Dopo qualche minuto ci raggiunse la fattora, proprietaria del casolare. Una ragazzona islandese robusta e bionda, che ci accolse con un bellissimo sorriso, come per noi fu come un faro luminoso in mezzo a tutta quella desolazione.

Eravamo davvero esausti, ma lei ci trasmise serenità e ci fece sentire subito a casa. 

Ricordo in particolare una sua frase, che mi rimase impressa e che ricordo ancora ora : “no check out time tomorrow, just relax!”

Ovvero “nessun orario di check out domani, solo relax!”. 

Una frase che racchiude in sé tutto lo stile di vita di questi contadini islandesi, per i quali la fretta e lo stress sono lontani anni luce.

Ci sedemmo e ci rilassammo con un bel piatto di pasta e la nostra solita birretta. 

Fu davvero una giornata lunghissima, probabilmente la più lunga di tutte quelle trascorse in Islanda. Quattrocento chilometri di meraviglie e di ostacoli, e ancora una volta andai a dormire estremamente felice, nonostante tutto.

Pronto a ripartire l’indomani, per scrivere nuovo capitolo di un’avventura sempre più avvincente.

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